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Copenhagen un mese dopo: riflessioni

L'accordo raggiunto a Copenhagen in occasione della Conferenza sul Clima organizzata dalle Nazioni Unite (COP15) si presta ad una doppia chiave di interpretazione: dal punto di vista della politica, e da quello delle aziende e del business in genere.

Redazione GreenCity

Se lo analizziamo da una prospettiva politica, dobbiamo partire dalla considerazione che l'accordo è stato raggiunto da un numero molto limitato di Paesi, una trentina in tutto sui 193 che compongo il cosiddetto Contracting Party (CP) , il novero dei paesi che partecipano ai diversi appuntamenti del COP. Per quanto estremamente ridotto, però, questo gruppo di 30 paesi rappresenta oltre l'80% del totale delle emissioni di CO2. Il "vecchio" Protocollo di Kyoto che si sta cercando di sostituire arrivava ad un mero 30% delle emissioni.  
Peraltro, solo un pugno – USA, Cina, India Sudafrica e Brasile – di questi 30 Paesi ha avuto un ruolo pieno ed effettivo nel determinare i contenuti (molto limitati) del testo concordato. Gli altri, si sono limitati a prendere atto di quanto deciso. E tra questi, purtroppo, va annoverata anche l'Unione Europea.
È proprio questo limitato coinvolgimento della gran parte dei Paesi, unito all'assenza di un vincolo legale al rispetto di quanto stabilito nel testo sottoscritto, a gettare le maggiori ombre sul futuro dell'accordo.  
Secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali, i CP sono vincolati al rispetto delle sole decisioni prese secondo le procedure e le modalità decisionali previste dall'Articolo 8 dell'UNFCCC. L'Accordo di Copenhagen, in realtà, è stato raggiunto ai margini del COP15, e da soli cinque Paesi: questo lo "retrocede"al ruolo di mera espressione di indicazione politica. Dei "desiderata", insomma, e niente di più. Se, come e quando, queste indicazioni potranno trasformarsi in realtà, dipenderà dagli equilibri di potere che si manifesteranno negli anni a venire.  
Chiaramente, il fatto che dietro questo accordo ci siano tre delle quattro maggiori potenze economiche mondiali - USA, Cina e India - pone una grossa ipoteca a favore dell'Accordo. Spetterà agli altri paesi, a quelli che hanno espresso dissenso sui contenuti delle tre paginette che compongono il testo finale, trovare il modo per rovesciare quest'alleanza politica ed economica.

[tit:A chi spetta il ruolo del Guastafeste?]
Spetterà in primo luogo all'Unione Europea – la quarta grande potenza economica, il Paese grande sconfitto a Copenhagen –, sostenere il ruolo del "guastafeste".

La leva per rompere gli equilibri mondiali prefigurati dall'alleanza USA-Cina-India sarà, presumibilmente, il Green Climate Fund, lo strumento di trasferimento di aiuti finanziari dai paesi industrialmente sviluppati a quelli in via di sviluppo, il vero, grande nodo di tutte le discussioni. E quello che introduce una lettura più economica e di business di quanto sottoscritto al COP15.
L'Accordo prevede che arrivi a contare su 100 miliardi di dollari entro il 2020, provenienti da tutti i maggiori paesi industrializzati, ma con grossi squilibri: nonostante sia responsabile di circa il 25% in meno di emissioni di CO2, per esempio, l'Unione Europea dovrebbe contribuire a questo fondo con una quota ben 3 volte superiore a quella degli USA. Non proprio un esempio di corretta ed equilibrata distribuzione degli oneri.  
India e Cina hanno già fatto presente di non considerarsi tra i paesi industrializzati, ma bensì tra quelli in via di sviluppo: il premier indiano Manmohan Singh è stato particolarmente chiaro al riguardo, esprimendo perplessità assoluta sul buon funzionamento di questo Green Climate Fund. Pechino e Nuova Delhi si fanno forti del fatto che le loro economie, con tassi di sviluppo intorno all'8% - a fronte di tassi da prefisso telefonico, quando non addirittura da inverno artico, di quasi tutti gli altri, Europa inclusa - , sono le vere "locomotive" dell'economia globale, dalle quali non si può prescindere. Per questo, si porranno tra i destinatari dei finanziamenti erogati dal Green Climate Fund.   
In altre parole, i soldi dei contribuenti europei – aziende e cittadini – rischiano seriamente di essere dirottati verso quei paesi e quei mercati che già oggi costituiscono la minaccia per le nostre aziende, quelle piccole e medie in modo particolare. Con le conseguenze che si possono immaginare sul mercato del lavoro e sulle prospettive di pace sociale in Europa.  
L'implementazione completa del meccanismo di trasferimento dei fondi adombrato dal Green Climate Fund porrebbe le aziende europee nella condizioni di accelerare anche il trasferimento della produzione industriale verso i paesi destinatari di questi finanziamenti. Non sarebbero solo le produzioni o i servizi di più basso livello ad essere trasferiti: insieme ai soldi prenderebbero la via dell'Asia e dell'Africa anche le tecnologie – non quelle obsolete, dismesse dalle aziende occidentali, come spesso avvenuto finora, ma anche tecnologie di livello avanzato, come previsto dai nuovi accordi internazionali e come da tempo sta avvenendo (almeno per quanto riguarda Cina ed India).  
Le conseguenze nei 27 Stati Membri dell'Unione Europea sarebbero pesanti: i governi nazionali e quello dell'UE si troverebbero a fronteggiare una crisi economica e sociale molto maggiore di quella attuale.  

[tit:Come uscire o, meglio ancora, evitare di entrare in un situazione del genere?] Dal punto di vista politico, per l'Unione Europea e per i suoi 27 Stati Membri si tratterebbe di accelerare il processo di integrazione delle istituzioni. Puntare ad una sostituzione dei Governi nazionali con un Governo dell'Unione, in grado di prendere decisioni politiche impegnative. Questo permetterebbe di attuare una politica di blocco dell'implementazione dell'Accordo di Copenhagen. Diciamo pure di "sabotaggio", perlomeno per quanto riguarda il Green Climate Fund. Non sono previsti vincoli legali nei confronti dei Paesi firmatari dell'Accordo? E allora l'UE dovrebbe rifiutarsi di consegnare i suoi soldi al Fondo, dandoli solo ed esclusivamente a quei Paesi che dovessero sottoscrivere precisi impegni politici ed economici con l'Europa. Questo permetterebbe, dal punto di vista politico, di formare un fronte opposto all'alleanza USA-Cina-India; dal punto di vista economico, di evitare l'affossamento dell'economia europea.
Contemporaneamente, Bruxelles dovrebbe portare avanti una politica economica fortemente improntata agli incentivi nei confronti delle aziende e delle organizzazioni economiche europee in genere: incentivi all'innovazione, allo sviluppo tecnologico, alla creazione di posti di lavoro.
Fulcro di questa politica economica di incentivi dovrebbe essere l'industria, più che il commercio o i servizi: l'Europa ha bisogno di tornare ad essere un paese di produttori, oltre che di consumatori.  Il solo settore dei servizi non può bastare a sostenere l'economia di una regione che conta su mezzo miliardo di abitanti. L'attuale crisi economica, causata dall'eccessivo peso che alcuni paesi hanno dato al settore della finanza, dovrebbe insegnare che la ricchezza di un Paese si basa sulla sua capacità di produrre beni, non sulla quantità e qualità di servizi finanziari (che troppo spesso sconfinano nelle catene di S.Antonio!).

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Pubblicato il: 19/01/2010

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