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Cancùn, tre giorni alla fine (del mondo?)

Anche Cancùn è entrata nella fase finale, nei suoi ultimi tre giorni di discussioni e incontri sul futuro climatico del mondo.

Franco Cavalleri

Ci siamo. Anche Cancùn è entrata nella fase finale, nei suoi ultimi tre giorni di discussioni e incontri sul futuro climatico del mondo. In realtà, le migliaia (quindici mila, pare) di delegati da 193 paesi del mondo, organizzazioni sovranazionali e internazionali, associazioni ambientaliste e chi più ne ha più ne mette, sono radunate in una delle capitali mondiali del sole e delle vacanze da dieci giorni, ormai, ma non sembrano aver fatto grandi passi avanti rispetto a Copenhagen. cancun-tre-giorni-alla-fine-del-mondo--1.jpg



Ieri pomeriggio (secondo il fuso orario italiano), il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon ha di nuovo esortato i governi a raccogliere la sfida del riscaldamento globale, mentre gli abitanti degli atolli e degli arcipelaghi del Pacifico hanno supplicato che si arrivi in tutta fretta alla stesura di un nuovo patto per rallentare il cambiamento climatico prima che le loro case, le loro isole, le loro culture scompaiano inghiottite dal mare che si innalza. Come dire che, dopo dieci giorni di discussioni, siamo ancora all'abc del problema.
"Sono profondamente preoccupato che i nostri sforzi sono stati finora insufficienti", ha detto Ban, aprendo la riunione ad alto livello di presidenti, primi ministri e ministri dell'ambiente. "Non siamo ancora arrivati ad affrontare la sfida".
"Abbiamo bisogno di fare progressi sulla effettiva consegna dei fondi, insieme a un sistema di responsabilità solida e trasparente", ha detto ai giornalisti durante un conferenza stampa a Cancùn.
"La gravità della crisi ci è sfuggita, persa in una nebbia di gergo scientifico, economico e tecnico", ha detto Stephen Marcus, presidente dell'isola di Nauru, meno di 10.000 abitanti ed uno dei paesi più a rischio di sparire tra i flutti oceanici.
"Gli oceani che una volta ci sostenevano ora minacciano di inghiottirci", ha aggiunto il suo collega di Palau, Johnson Toribiong." Il mondo deve ascoltare il nostro grido per una azione collettiva che salvi noi... e il nostro pianeta Terra".
Dichiarazioni che non hanno tempo, nel senso che potrebbero essere state dette indifferentemente a Cancùn come a Copenhagen, Bali o in qualunque altro appuntamento della serie COP.
Lo scoglio che blocca ogni risultato, ovviamente, è rappresentato dai soldi. Quanti ne servono, per quali progetti ed azioni, chi li mette e come si suddividono le quote tra paesi ricchi, paesi in via forte sviluppo e paesi poveri? Perché non dobbiamo dimenticare che, come succede sempre, se c'è chi perde c'è anche chi vince. Tra i primi va sicuramente annoverata l'Europa – che in questi ultimi anni ha visto diminuire la sua importanza politica, oltre che la capacità di reggere l'impatto economico di Paesi come Cina e India, ma anche Brasile, Indonesia, Malaysia. Tutti paesi che vanno annoverati tra i vincenti, invece, perché nel caos economico e politico scatenato dalla crisi che da due anni e mezzo sta cambiando i rapporti di forza sullo scacchiere globale, sono quelli che stanno guadagnando di più, in soldi ed in autorevolezza.
Ban si è detto ottimista per il fatto che i governi avevano quasi raggiunto i loro impegni di raccogliere $30 miliardi di fondi sul clima per sostenere azioni di emergenza a favore dei paesi poveri fino al 2012, ma ha anche riconosciuto che non si è andati molto più in là delle promesse e degli impegni verbali.
L'ormai vecchio – scade tra due anni - Trattato di Kyoto ha fissato obiettivi di riduzione per i paesi ricchi. Quando è stato scritto, però, il mondo era diverso. Praticamente un altro. Era il 1997, e i paesi del G8 sembravano avere saldamente in mano il controllo politico ed economico del mondo. Poi ci sono stati l'11 settembre, l'ingresso della Cina nel WTO, la guerra contro Saddam, Al Qaeda, il terrorismo internazionale, fino ad arrivare al crollo di alcune delle principali banche d'affari americane che ha coinvolto, nella caduta, anche alcune europee, dall'islanda al Regno Unito all'Olanda fino ad rrivare è cronaca di queste settimane, a Grecia, Irlanda e Portogallo. Tutti fatit ed eventi che hanno spostato l'equilibrio del mondo verso nuove potenze: Cina, India, Brasile, in primo luogo, ma anche Iran, Indonesia, Malaysia. Guardacaso, tutti paesi che rientrano ampiamente nell'elenco dei maggiori inquinatori del mondo, ma che sono liberi dai vincoli e dai legacci che il Trattato di Kyoto impone ai loro concorrenti industrializzati. Come convincerli ad accettare regole simili a quelle di Europa e Nordamerica è la sfida da vincere (per UE e Usa, ovviamente, perché loro, Cina, India e compagnia, non sentono il bisogno di accettare limiti alla loro espansione economica).
Quanto la situazione sia difficile e complicata è ben noto a tutti. "Non abbiamo bisogno di un accordo definitivo su tutte le questioni, ma abbiamo bisogno di fare progressi su tutti i fronti", ha detto Ban, implicitamente accettando un qualunque accordo, minimo, ma pur sempre un accordo. Ce la faranno a raggiungerlo, in questi ultimi tre giorni di COP16?

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Pubblicato il: 08/12/2010

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