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Fine del petrolio, fine degli equilibri

Finisce il petrolio, e con lui finiscono anche i regimi che dal petrolio sono nati e su di esso hanno basato la loro intera esistenza e la forza politica. Quali scenari si aprono, per gli equilibri globali? Quali linee politiche ed economiche dovrebbe prendere in considerazione l'Unione Europea per garantirsi il futuro?

Franco Cavalleri

Regimi rovesciati in Tunisia ed Egitto; guerra civile in Libia; disordini in Bahrein e prime contestazioni in Arabia Saudita: finisce il petrolio, e con lui finiscono anche i regimi che dal petrolio sono nati e su di esso hanno basato la loro intera esistenza e la forza politica. Cosa ci aspetta dietro l'angolo, quali scenari si aprono, per gli equilibri globali, di fronte a così cambiamenti radicali? Quali linee politiche ed economiche dovrebbe prendere in considerazione l'Unione Europea per garantirsi il futuro?
L'epoca di regimi 'stabili', in grado di assicurare i rifornimenti di energia necessari al mondo per nutrire la propria crescita economia è indubbiamente alla fine, si sta letteralmente disintegrando: la domanda è cosa verrà dopo di esso, e quali saranno le conseguenze sulle disponibilità energetiche.
Nordafrica e Golfo Persico hanno fornito nel 2009 – l'ultimo anno di cui abbiamo a disposizione dati – il 36% del totale della fornitura di petrolio nel mondo, pari a qualcosa come 29 milioni di barili al giorno: numeri che da soli rendono l'idea dell'importanza che i Paesi del Maghreb, del Medio Oriente e del Golfo Persico ricoprono per gli equilibri politici ed economici globali. Un'importanza destinata a crescere, visto che il Dipartimento dell'Energia di Washington stima che i Paesi della regione possano contare su due terzi delle riserve di petrolio rimaste nel sottosuolo del pianeta e saranno in grado, entro il 2035, di fornire qualcosa come il 43% della fornitura di petrolio grezzo, una percentuale in crescita dal 37% del 2007.
I mercati hanno reagito con rialzi immediati e forti del prezzo del petrolio alla chiusura delle linee di rifornimento da un paese come la Libia, che forniva, prima dello scoppio della guerra civile, 1,7 milioni di barili al giorno. L'Arabia Saudita ha aumentato la propria produzione, mano non è bastato a compensare la perdita libica.
L'aumento del prezzo del petrolio fa indubbiamente gioco anche ai regimi che ancora riescono a tenere sotto controllo la situazione sociale e politica interna, e che stanno cercando di capitalizzare il più possibile la loro unica fonte di reddito, per più motivi: hanno bisogno di soldi per finanziare la conversione delle loro economie e fare fronte al prossimo tramonto dell'economia del petrolio – le riserve di oro nero non dureranno oltre pochissimi decenni, come dire dopodomani in termini umani -, e si trovano anche nella necessità di distribuire ricchezza ai loro cittadini per evitare di essere travolti dall'ondata di insoddisfazione popolare.
La richiesta mondiale di energia a basso prezzo si scontra quindi con la necessità di questi regimi di conservare una fonte di ricchezza per il tempo necessario a convertire le loro economie. Due calendari – quello dei paesi produttori di petrolio e quello dei paesi che invece lo consumano – decisamente distanti l'uno dall'altro.
L'Europa – e ancora di più l'Italia - non può certo permettersi di pagare il petrolio ad oltre 100 dollari il barile: in una situazione economica che appena comincia a dare i primi, timidi segnali di ripresa, sarebbe una mazzata di tale portata da affossare ogni speranza di far ripartire la macchina dell'economia e tornare a produrre ricchezza.
Non è peraltro possibile pensare di abbandonare l'oro nero di punto in bianco, la nostra economia dipende ancora troppo dal petrolio. L'energia nucleare richiede tempi di costruzione delle centrali che vanno dai dieci ai venti anni, secondo il Paese; le fonti alternative – sole e vento – sono decisamente più veloci, ma ci vorranno decenni prima che arrivino ad un livello di sviluppo e di diffusione tali da poter essere un'alternativa credibile al petrolio. Il gas si pone in una posizione mediana. Più veloce del nucleare per quanto riguarda i tempi di costruzione degli impianti di estrazione, trattamento e distribuzione, è però decisamente meno sostenibile dal punto di vista ambientale: pensiamo anche solo alla quantità di suolo che va sacrificata per impianti e gasdotti. Comporta, inoltre, un potenziale – e forse anche qualcosa di più – pericolo di conflitto, dati i Paesi che, come produttori o come passaggio, sono coinvolti in questo settore: basti ripensare alle 'guerre del gas' tra Russia e Ucraina che hanno più volte portato l'Unione Europea sull'orlo della crisi di nervi. I vari progetti – South Stream, Nabucco – che l'UE ha sul tavolo non offrono certo garanzie di libertà da posizioni politicamente difficili.
Ecco quindi il dilemma: sostenere i processi di 'democratizzazione' apparentemente – ma è ancora tutto da dimostrare – in atto in Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen e negli altri paesi già toccati dal 'virus' della fine del petrolio, o sponsorizzare il ritorno dei vecchi regimi? La prima opzione è quanto mai nebulosa: non c'è nessuna garanzia che dai vari movimenti di piazza non escano leader sostenuti da blocchi culturali e politici sullo stile degli ayatollah iraniani, e di erto questa non sarebbe una buona notizia per l'Europa. D'altronde, cercare di mantenere in sella tiranni come Gheddafi non aiuterebbe a promuovere l'immagine dell'Europa nel mondo.
Meglio sarebbe, quindi, spingere sull'acceleratore del rinnovamento tecnologico, spingendo ogni euro disponibile verso lo sviluppo e la diffusione di forme di energia 'europee', ovvero che diano ai 27 dell'UE la possibilità di slegarsi da ogni e qualsivoglia ingerenza esterna. Avanti, dunque, con nucleare e fotovoltaico e, in misura minore, eolico.

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Pubblicato il: 09/03/2011

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