Se da una parte il 79% investitori globali, secondo la ricerca pubblicata da ESGToday, punta sempre di più su politiche di investimento sostenibile, dall’altra il 70% delle imprese italiane con rating ESG si limita a far “certificare†le proprie dichiarazioni di sostenibilità da agenzie di consulenza che non effettuano Audit in azienda ma si limitano a validare le dichiarazioni delle imprese stesse.
Redazione ImpresaGreen
Negli ultimi anni sempre più investitori hanno deciso di implementare le proprie politiche ESG: secondo lo studio pubblicato su ESGToday realizzato da Deloitte e The Fletcher School, il 79% degli investitori ha dichiarato di avere in atto una politica di investimento sostenibile, una percentuale in netto aumento rispetto a cinque anni fa, quando era ferma al 20%. L’indagine di livello globale, svolta tra gennaio e dicembre 2023, ha coinvolto oltre mille proprietari di asset, gestori di asset e consulenti di investimento, inclusi CEO e CIO sparsi tra Nord America, Europa e Asia, e solo l’1% degli intervistati ha dichiarato di non avere un piano di investimento ESG. In particolare i più attivi sono gli statunitensi con l'83% degli investitori che prevede politiche di investimento ESG in aumento rispetto al 27% di cinque anni fa. Gli investitori europei sono, invece, leggermente indietro e si fermano al 75%. Tra i principali motivi che spingono a integrare i fattori di sostenibilità nei processi decisionali di investimento ci sono il rispetto dei requisiti normativi (39%), il miglioramento delle performance finanziarie (36%) e l’influenza o la pressione degli stakeholder (34%).
Se da un lato gli investitori puntano su politiche sostenibili, dall’altra le aziende devono farsi trovare pronte a rispettare i rating ESG, ma da questo punto di vista i dati non sono confortanti: una recente ricerca finanziata dal Parlamento Europeo dimostra come il 70% delle aziende italiane con rating ESG non si sia sottoposte ad alcun “audit” presso le proprie sedi, essendosi limitate a far “certificare” dalle agenzie e società di consulenza le proprie stesse dichiarazioni. Una scelta questa che espone a gravi rischi reputazionali, come dimostra la grave crisi della Giorgio Armani Operation, recentemente commissariata dal Tribunale di Milano. Rischi che dimostrano come la reputazione sia un asset intangibile primario e vitale per qualunque azienda, un vero e proprio patrimonio da tutelare. “Il numero di aziende italiane, anche di medio-grandi dimensioni, che non hanno mai effettuato uno screening approfondito e specifico del proprio profilo di rischio reputazionale è francamente impressionante - dichiara Luca Poma, Professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino - Compromettere la reputazione, come sempre più ci raccontano le cronache, rischia di distruggere valore e pregiudicare la business continuity delle organizzazioni”.
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